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La scena dipinta: patrimonio italiano da 500 anni
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Viaggio nel laboratorio dell’Opera di Roma, officina di tutte le arti
Il cliché è sempre lo stesso: opere liriche messe in scena con scenografie tradizionali applaudite fino allo sfinimento, mentre all’estremo opposto, le trovate cervellotiche di registi e scenografi che il più delle volte vengono fischiate. Questo generalmente perché il pubblico, quando va all’opera, lo fa per vedere uno spettacolo ricco di 500 anni di tradizione e non per ammirare installazioni, proiezioni, riambientazioni, travisamenti, quando non oscenità conclamate. Anche perché, l’Opera si chiama così perché è una forma d’arte totale che unisce canto, musica, recitazione, poesia, danza e … pittura.
E’ quindi un vero peccato che la tradizione della scena dipinta all’italiana, con i suoi teleri e le finte prospettive, che proviene fin dal Rinascimento, venga proposta al pubblico una tantum, così come fosse un contentino per turisti, un’anticaglia da tradizionalisti.
Basterebbe visitare il laboratorio di scenografia del Teatro dell’opera di Roma (da 90 anni il più importante del mondo per dimensioni, storia ed esperienza delle maestranze) per avere un’idea del valore di quello che ci stiamo perdendo.
Situato in quello che una volta era un pastificio, sorge fra il Circo Massimo e la Bocca della Verità e poggia le fondamenta su un tempio sotterraneo dedicato al dio Mitra. Il Direttore della scenografia, M° Maurizio Varamo, ci guida all’interno della struttura.
Alla fine degli anni ’20, il Teatro Costanzi (vecchio nome del Teatro dell’Opera), fu quasi completamente rifatto dall’architetto Marcello Piacentini, il quale destinò ad altri usi i vecchi ambienti della scenografia per i quali si dovette trovare una nuova sistemazione. La scelta cadde su questa grossa struttura in Via dei Cerchi, un ex pastificio che possedeva una caratteristica formidabile: il suo microclima interno, secco e ventilato, appositamente studiato per far asciugare spaghetti e maccheroni, era anche l’ideale per conservare scenografie e costumi. Nel 1931, l’architetto-ingegnere futurista Clemente Busiri Vici soprelevò l’ultimo piano con un ardito tetto a capriate in cemento armato che fu tra le prime sperimentazioni del genere. Il risultato fu un’enorme sala di 23 metri x 44, piena di luce, sul cui pavimento potevano essere stesi i grandi teleri da dipingere.
Entriamo nel laboratorio al piano terra, dove i falegnami-macchinisti realizzano le strutture lignee che sorreggono le scene. Ovunque, grandi telai sagomati o “a burattino” che, grosso modo, vengono prodotti ancora come 500 anni fa. Questi sistemi furono infatti adottati per primi da Leonardo e Raffaello; i primi scenografi a esportare in Europa gli usi del teatro all’italiana furono Baccio del Bianco e Cosimo Lotti. La famiglia dei Bibiena, poi, composta da scenografi-pittori-architetti, incarnò la quintessenza degli artisti italiani chiamati a lavorare presso le grandi corti straniere.
Già dal primo piano si cominciano a conservarei sessantamila costumi patrimonio del Teatro dell’Opera. Qui, al riparo da muffe e tarme, l’équipe della sartoria capitanata da Maurizio Santini si prende cura di splendidi abiti di scena sulle cui etichette si intravedono, qui e là, i nomi di giganti della lirica: ecco la marsina di Scarpia indossata dal baritono Tito Gobbi, i pepli della Callas in Norma, il frac dell’Alfredo Germont del tenore Tito Schipa, il kimono di Madama Butterfly che fasciava il soprano Renata Scotto… In un simile reliquiario, qualsiasi amante dell’opera si farebbe prendere dal capogiro. Per quanto molti dei costumi più recenti vengano noleggiati per produzioni anche all’estero, quelli storici possiedono un valore enorme, non possono essere utilizzati e devono essere conservati con ogni cura per la fragilità dei tessuti che nessuno saprebbe restaurare. La loro unica destinazione può essere solo quella di una mostra, indossati da un manichino.
Al quarto piano, una scritta smaltata anni ’30 con la dicitura “Scenografia” annuncia l’ingresso nel sancta sanctorum dell’edificio. Si rimane subito senza fiato: 800 mq dominanti su Roma, con finestre che ripetono inquadrature da cartolina: il Palatino, il Circo Massimo, il “Cuppolone” di San Pietro, il campanile di S. Maria in Cosmedin, il Tempio di Vesta, l’Aventino. Il pavimento è un palinsesto di tele e tessuti vari, macchiati di colore e disegni. Il M° Varamo spiega come si procede per realizzare la scenografia dipinta all’italiana: “Lo scenografo realizzatore abbozza in grandezza reale gli elementi che comporranno la scena. Come avveniva anticamente, le sarte di scenografia confezionano le tele cucendole a terra e i preparatori le inchiodano sul pavimento. Questi operai specializzati, si occupano anche di preparare i colori con le terre amalgamate con colle animali (come avveniva anticamente) e segnano la quadrettatura con una gigantesca “matita” composta da una canna con una punta di carbone. Solo a quel punto, i pittori scenografi procedono alla pittura vera e propria. E’ come dipingere una tela normale, solo che tutto è in proporzioni gigantesche: i pennelli sono lunghi almeno un metro e mezzo, e la tavolozza è un carrello pieno di vasi di pigmenti. I fondi vengono stesi con uno spruzzatore simile a quelli agricoli. Solo dopo molti anni di esperienza, si acquisisce quella maestria nell’accostare macchie di colore che, viste da lontano, si fondono in una visione del tutto mimetica della realtà”.
E’ il caso delle mirabili scenografie di Adolf Hoenstein che il Teatro dell’Opera ha replicato in occasione dell’allestimento tradizionale della Tosca pucciniana, la cui prima si svolse proprio al Teatro Costanzi il 14 gennaio del 1900. Questa produzione, che viene periodicamente riproposta dal Teatro, registra ogni volta il tutto esaurito ed entusiastici apprezzamenti da parte del pubblico. L’illusione prospettica è, infatti, degna dei grandi quadraturisti barocchi: la navata di S. Andrea della Valle, per il primo atto; il cupo salotto di palazzo Farnese, per il secondo; lo scorcio di Castel Sant’Angelo, visto all’alba, dal quale l’eroina di Sardou si getta cantando l’ultima frase lacerante: “O Scarpia, avanti a Dio!”. Per i pittori del laboratorio queste scene tradizionali sono una vera sfida, ma, al tempo stesso, il massimo della soddisfazione professionale.
“Le scenografie all’italiana su tela dipinta – spiega Varamo – sono le più economiche e funzionali, dato che possono essere smontate e rimontate in pochissimo tempo e conservate ordinatamente, rimanendo pronte all’uso. Gli antichi maestri italiani che hanno esportato quest’arte in tutto il mondo sapevano il fatto loro. Solo con tela, acqua e colori si possono realizzare tutti gli scenari del mondo e non è affatto detto che il mezzo costringa a rimanere ancorati, per forza, a una pittura figurativa. Io stesso, nel 2007, ho rifatto qui, all’Opera di Roma, le tele per il balletto Parade di Erik Satie con scene e costumi di Picasso.
Da vari decenni, il teatro lirico europeo, in generale, ha rinnegato lo straordinario patrimonio della scenografia all’italiana e la Germania è stata la capofila di queste operazioni con modernismi talmente estremi, a volte, da rasentare l’offensivo. Eppure oggi, nello stesso paese, la tendenza si sta invertendo: molti teatri tedeschi, stanchi di allestimenti stranianti, tornano alle magnifiche tele dipinte di una volta. In Italia, questa “renaissance” è ancora di là da venire, ma il successo delle messinscene tradizionali proposte dall’Opera di Roma, dimostra che lo spettatore, oggi più che mai, si aspetta in teatro oltre alla meraviglia per l’orecchio, anche quella per l’occhio.
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Autore: Andrea Cionci
23/04/2019
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