L’uso dell’Hashtag
Per noi Generazione X era il modo per disattivare la suoneria sul telefonino attraverso una sequenza di simboli e numeri o in combinazione con l’asterisco per navigare nei menù delle segreterie telefoniche (e lo chiamavamo “cancelletto”).
Chi poi ha programmato nel linguaggio HTML (Hyper text markup language, il linguaggio informativo dei siti web per capirci), sa che il cancelletto seguito da una parola senza spazi si usa come link per andare ad un contenuto all’interno della stessa pagina web, direttamente al punto di ancoraggio definito dall’id… va bene, via, non serve spiegare oltre (ma se ti interessa approfondire, scrivimi pure, sarò lieto di approfondire insieme l’argomento che tanto mi appassiona).

Oggi l’hashtag ha visto un’importante seconda gioventù, proprio grazie ai Social, Twitter per primo che ha introdotto l’utilizzo del simbolo # seguito, senza spazi, da una parola per “categorizzare” quel contenuto.
L’hashtag quindi è diventato un nuovo modo di comunicare, di esprimere se stessi, spesso accompagnato dalla coniazione di neologismi o frasi, rigorosamente senza spazi né segni di interpunzione, spesso molto descrittivi (questo articolo meriterebbe l’hashtag #scrivoarticolialmattinopresto).
L’uso che se ne fa è molto soggettivo ma ce n’è uno che forse più di tutti viene sottovalutato da chi ne fa uso: il fatto di diventare automaticamente parte di una community (non questa Community!). Inserire un hashtag in un proprio post, vuol dire che quel post appartiene ad una #categoria, un gruppo, un insieme.
Non è solo un modo per dire la propria ma diventa, volontariamente o involontariamente, un parlare ad una certa cerchia di persone.
Pensare che abbia un utilizzo essoterico (inteso come un contenuto che vuol essere divulgato verso l’esterno) non è sbagliato perché in effetti da visibilità ad una fetta di persone che altrimenti non avrebbero probabilmente avuto modo di vedere quel contenuto (come il gioielliere artigiano che crea orecchini dai tappi di bottiglia, utilizzerà verosimilmente #handmade). Ma ha un valore assai maggiormente esoterico, quando il materiale esposto online diventa dedicato ad una cerchia ristretta, come nel caso di un famoso influencer che inserisca un hashtag dedicato ad un argomento specifico, inserendosi così in quella categoria di contenuti e in quella community. Utenti in cerca di cassa di risonanza verso l’esterno o individui con grossa audience che entrano a far parte di un argomento. Visibilità vs. Specificità.
Di prassi, i signori dei Social (mi sia concessa la licenza) hanno compreso che l’utente medio è pigro e preferisce che gli sia propinato un contenuto in maniera passiva. Per tale motivo hanno creato degli algoritmi (codice informatico che ricevendo un input, crea un output secondo regole fissate) per poter decidere a priori quali contenuti mostrare all’utente.
Un lavaggio del cervello che ha ricevuto passivamente l’autorizzazione e che ha un unico scopo: aumentare le vendite e massimizzare i profitti, attraverso le sponsorizzazioni. Un vecchio ormai modo di dire recita:
Se qualcosa è gratuito, allora il prodotto sei tu
Anonimo
Creare una serie di regole per le quali bisogna spendere dei soldi per aggirarle, per uscire dal gregge: la ruota di un criceto.
Netflix stessa si è piegata alla pigrizia dell’utente, attivando una funzione che risponde alla domanda “Non so cosa vedere, dimmi tu cosa voglio vedere”. Ma da dove la prende questa conoscenza dell’utente? Dalle cose che vede. Ma se le cose che vede sono “imposte/proposte”, come potrà mai apprendere veramente cosa vuole davvero un utente? Imporranno quello che più conviene a loro, dando qualche briciola all’utente sul divano.
Utilizzare attivamente gli hashtag è un modo per riappropiarsi del diritto di vedere quello che si vuole, ed è molto semplice:
cliccando su un qualsiasi hashtag si “atterra” su una pagina che propone, in ordine unicamente cronologico (per Facebook ad esempio) oppure come fa Instagram, suddividendo fra “Più popolari” e “Più recenti” tutti i post che hanno all’interno della descrizione proprio l’hashtag cercato… FINE.
Se per esempio si legge un post che parla di pesca d’altura, basterà cliccare sul relativo hashtag (ad esempio #pescaaltura) per approdare su una pagina focalizzata unicamente su quel contenuto, al netto di usi impropri o refusi nello scrivere il testo dell’hashtag (gli errori più comuni quando si scrivono gli hashtag meriterebbero un articolo a parte).
Voglio fare un altro esempio: se si sta creando un post con un bel selfie (e a meno che non siate estremamente fortunati o naturalmente fotogenici, serviranno varie prove; d’altronde quella critica costante alle ragazze giovani di farsi tantissimi autoscatti, andrebbe rivista nell’ottica di un’attitudine che ha direttamente modificato l’uso dei Social media network e la nostra quotidianità stessa), insomma se avete lo scatto giusto, tralasciando la #postproduzione che è un argomento spinoso e del quale dovrei in futuro approfondire il tema anche qui con un articolo dedicato (fatemi sapere se vi interessa scrivendomi da qui, vi ritroverete ad arrovellarvi su quali hashtag mettere.

Spesso saranno hashtag “di pancia” o un filo diretto con qualcuno a cui vorrete dire qualcosa ([Amor vincit omnia], meno spesso saranno parte del concetto espresso sopra: categorie.
Si perché al momento che diamo una categoria ad un contenuto, esso è indicizzabile (termine molto comune nell’informatica, meno nell’uso comune) e ricercabile: una categoria, per definizione etimologica, è una “Suddivisione che si ottiene ordinando o classificando secondo vari criteri (gerarchico, di specializzazione, di disponibilità, di mezzi, ecc.) [Dizionario Google LINK: https://www.google.com/search?q=categoria]” che crea appunto una classificazione.
Una volta che si assegna un hashtag ad un post (o meglio si inserisce), si fa rientrare quel contenuto in una classe di appartenenza ed è proprio questo che fa di questo simbolo un potentissimo strumento di comunicazione sociale assai sottovalutato: se mi interessa una categoria di cose (ad es.: l’opera lirica), mi basterà digitare #operalirica o cliccare in un post che contenga questo hashtag dentro un Social Network qualsiasi e mi appariranno TUTTI (e ribadisco TUTTI, ma proprio TUTTI TUTTI) i contenuti che hanno quella classificazione inserita.
l’hashtag è discriminato e relegato ad un uso marginale
Instagram come ho avuto modo di dire in precedenza, ha una funzione maggiore: differenzia fra quelli più Recenti e quelli più Popolari, ma di base li elenca tutti. Ca va san dire che i Più popolari, a differenza dei Più Recenti, saranno assoggettati nuovamente alla “censura” dell’algoritmo che sceglierà cosa far vedere a chi conviene che veda.

Mi sento di dire che l’hashtag è discriminato e relegato ad un uso marginale rispetto all’enorme potenzialità che ha, di ricerca in primis ma anche di integrazione in un gruppo, in una community.
Il mio consiglio è di scegliere hashtag rappresentativi di un’identità, che diano un senso di appartenenza e che non siano così enormi da rendere il proprio originale contenuto del tutto diluito in un mare magno: usa hashtag “piccoli” si dice, si ma non proprio micro, mi raccomando.
Buona navigazione e, se vi ho incuriosito, buona ricerca.
Marco Frusoni
CEO & FOUNDER ARTSCOM
11/10/2021
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